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LA MIA AVVENTURA

Io nei panni di Giacomo, a seguito della lettura del magnifico racconto "La lepre"

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Era una giornata come tutte le altre; io come al solito ero nel bosco vicino a casa mia e giocavo a fare il cacciatore; avevo sia un arco sia delle frecce che mi ero fabbricato e con cui giocavo tutti i giorni. Il vento nel bosco mi scompigliava i capelli e mi portava tanti odori strani: il muschio selvatico che mi faceva sentire in montagna, le rose bagnate dalla rugiada mi portavano in un prato fiorito e mi facevano venir voglia di cacciare. Gli unici suoni percettibili erano il dolce soffiare di una brezza leggera e il rumore dei miei passi sul terreno ancora bagnato dalla pioggia di quella mattina. In quel periodo gli alberi erano di un bel verde acceso e sui loro rami a volte si intravedevano alcuni frutti, troppo in alto per essere raggiunti, spesso circondati da api che col loro ronzio spezzavano il silenzio del bosco. Ogni tanto le foglie lasciavano cadere alcune gocce di rugiada che cadevano sul mio viso e scivolavano giù come lacrime. Guardai l'orologio: mancava solo un'ora alla cena, così iniziai a camminare verso casa. Non potevo far scoprire a mia madre che mi addentravo così tanto nel bosco. Casa mia era abbastanza lontana e per raggiungerla non si poteva usare il sentiero perché ormai era sconnesso, pieno di ortiche e radici. Perciò, per arrivarci, seguivo la riva di un fosso che sfociava in un piccolo laghetto. Le sue sponde erano scivolose e fangose, su di esse a volte si trovavano dei gamberi di fiume che scappavano alla mia vista. Quando camminavo su quelle rive avevo sempre paura di cadere nelle acque maleodoranti e stagnanti del fosso, per questo prima tastavo la terra con un bastone e poi ci camminavo sopra.

Dovevo solo attraversare una piccola collinetta e sarei arrivato a casa ma, fu in quel momento che la vidi: un animale dal pelo marrone che splendeva, illuminato dal sole che passava tra le fronde degli alberi, i suoi occhi erano di un azzurro quasi celeste nei quali si poteva scorgere riflessa la mia immagine. Era una lepre, una lepre bellissima, la più affascinante che avessi mai visto anche se non ne avevo mai viste altre.

Io ne rimasi affascinato. In quegli istanti né io né la lepre ci muovemmo, lei era immobile, sembrava terrorizzata ma non fece neanche una mossa. Era una preda così facile da colpire, un animale inerme paralizzato dalla paura, che si sarebbe fatto uccidere senza alcun problema. Preparai l'arco e ci inforcai una freccia, quella più dritta, più appuntita, più mortale.

Stavo per tirare, quando, gli occhi della lepre mi fecero arrivare nella mente alcune domande: “Chissà com'è sentirsi una preda inerme?”. La lepre in quel momento era nel panico, non sarebbe riuscita a fuggire, non riusciva nemmeno a muoversi e per di più vedeva me preparare il tiro che l'avrebbe provocato la morte. Mi decisi e scoccai la freccia che inizio a volare in direzione della lepre già certa di subire il colpo, ma la mancò piantandosi nel terreno.

In quel momento mia madre mi chiamò per avvertirmi che la cena era pronta. Corsi da lei, ed ero sul punto di raccontarle tutto ma mi fermai pensando alla punizione che avrei ricevuto per quello che avevo cercato di fare. Quella sera per cena c'era il coniglio che non toccai nonostante avessi fame. I miei pensieri erano rivolti alla lepre. Nel mio cuore sentivo un peso: il senso di colpa. Avevo paura che la freccia avesse procurato una lacerazione nella carne dell'animale e che in quel momento fosse disteso sentendo una forte agonia che l'avrebbe portato alla morte, anche se in realtà non era andata così.

In quel momento capii veramente i miei errori anche se non riuscii a perdonarmeli. Il vero errore non era non essere riuscito a colpire il bersaglio ma aver voluto, per un istante riuscirci.

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Chiara Durantini

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