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LA FABBRICA DEI TALENTI

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Una riflessione riguardo l’articolo “La fabbrica dei talenti: talento o show?” di Michele Serra. La concezione moderna dell’artista contrapposta a quella del passato in relazione al cambiamento del mondo della televisione.

 

Mentre, tempo fa, la televisione era vista unicamente come una “rampa di lancio” per i talenti già maturati lontano dai riflettori, oggi “l’apprendista” è l’oggetto principale da esibire nei reality televisivi volti a mostrare il “percorso” del ragazzo (ad esempio) dall’essere uno qualunque ad una celebrità. Lo si costringe ad essere bravo (o almeno a pretendere di esserlo) per appagare solo ed esclusivamente lo spettatore, per dare in pasto ai leoni una debole preda con cui divertirsi. Si acquisisce, dunque, una popolarità forzata, innaturale e, soprattutto, effimera. 

La “vecchia bottega dell’arte”, citata da Serra, è quel luogo in cui si trasmettono gli insegnamenti dal grande professionista al giovane talento, permettendo di raggiungere grandi e soprattutto veri traguardi guadagnati con fatiche e sacrifici; d’altronde, la bottega è il laboratorio dell’artista, un ambiente umile e che rispecchia il chiaro riflesso della sua mente, in cui egli progetta e plasma la sua arte. Il giovane che nutre dunque il suo talento nelle “botteghe dell’arte” sarà capace di esibirlo con umiltà, senza ostentarne la qualità né la propria impeccabile bravura. 

Nei secoli l’immagine dell’artista ha subito una serie di stravolgimenti che è in costante divenire e che, col tempo, si è impadronita di un concetto di arte completamente opposto a quello tipico del passato, il quale poneva al centro l’impegno e la fatica impiegati nell’opera tecnicamente e simbolicamente perfetta, meritevoli dunque di successo e riconoscimenti da parte del pubblico. Venivano premiati con il dono della critica solamente le opere degne di essere discusse dalle più illustri menti dell’epoca, a prescindere dall’autore dell’opera. Oggi, invece, tutto è considerato “bello” e tutto è considerato “arte” dall’opinione pubblica, artefice dell’odierno concetto artistico che permette a tutti di esibire al pubblico opere portatrici di concetti “poveri” nel loro significato e nella loro estetica, dando a ciascuna di loro attenzioni (tramite la loro comparsa in TV) che, in realtà, spesso non meritano.

Gli ideali di Faussone, protagonista de “La chiave a stella” di Primo Levi, sono citati da Serra e riflettono la sensazione di appagamento nei confronti del proprio lavoro, ricompensa per la fatica e l’attenzione dedicate dall’uomo alla realizzazione dell’opera e , soprattutto, al suo risultato finale, la più evidente dimostrazione delle grandi capacità dell’artista, che costituiscono il presupposto di realizzazione dell’opera stessa e che l’autore non intendeva tuttavia ostentare. Faussone è un personaggio che lotta contro le forze della natura con il solo bagaglio delle sue esperienze ed abilità. Egli, pertanto, assomiglia maggiormente a un “medievale” piuttosto che a un “progenitore dei talent show”, in quanto egli si ritiene già pienamente rappresentato dal suo lavoro senza sentirsi in dovere di attribuirsene la paternità, cosa che invece è prioritaria nei talent show odierni.

In base alla riflessione condotta da Serra il termine talent-show è definito un ossimoro in quanto i due termini si contraddicono pienamente: siccome secondo il giornalista il solo talento esistente è quello già sbocciato nelle "botteghe dell’arte dell'oscuro, umile, apprendistato”, i “talenti” ancora acerbi e pressoché inesistenti dei partecipanti ai reality di questi decenni non dovrebbero affatto essere esibiti prematuramente al pubblico, essendo quasi, addirittura, non degni di essere definiti tali.

Secondo Serra “puntare il riflettore sull’apprendista” ne comporterebbe un’alterazione del percorso, illudendolo di poter raggiungere grandi traguardi senza fatica. “Una laurea a brevissima che dura il tempo di una stagione televisiva" la definisce, un percorso precipitoso che brucia tappe fondamentali per la formazione di un artista: l’acquisizione delle competenze necessarie, la sperimentazione, l’errore, la fatica e la soddisfazione di ricevere riconoscimenti per il duro lavoro svolto, senza il bisogno, pertanto, di pavoneggiamenti o di ostentare le proprie doti.

Secondo Serra, l’”apprendista”, per creare “audience”, deve auttare lo “sforzo, molto incerto, di diventare bravo”, caricato di “ansia e fretta” per il “continuo debutto” che è costretto a mettere ripetutamente in scena e “pur di piacere al pubblico imboccherà ogni possibile scorciatoia”, nella disperazione e nella compassione che può trasmettere un ragazzino che può piacere perché “soccombe” ed “interpreta la sconfitta” e non perché sia fintamente bravo. L' “apprendista" deve essere capace di instaurare un legame di profonda empatia con il pubblico, in modo che tutti possano venire catturati dalla sua esibizione, immedesimandosi nelle sue risate quanto nelle sue lacrime. L'apprendista, inoltre, deve essere abile nel suscitare emozioni sul pubblico legate allo stupore per far sì che in loro non cresca la noia.

Creare irrealistiche aspettative nei giovani rispetto alla popolarità ed al successo facile comporta nei ragazzi, come scrive Serra, illusioni che li costringono a pensare che tutto sia possibile in un’ottica quasi infantile: la vita che la maggior parte di questi ragazzi vivranno realmente sarà molto diversa da quella che si aspettano di affrontare. Nella vita, come nel mondo del lavoro, è molto difficile (se non impossibile) raggiungere sempre il massimo, essere costantemente i primi in classifica. Bisogna dunque accettare la principale caratteristica che ci rende umani, cioè l’errore, ciò che ci distingue dall’intelligenza artificiale (creata dall’uomo anche per contrastare questo suo difetto) e che ci rende imperfetti. Così come sarebbe fasullo un uomo incapace di sbagliare, sono fasulli anche  i traguardi (come popolarità e successo) raggiunti senza il minimo sforzo, cosa in cui, tuttavia, crede la maggior parte dei giovani. Uno sguardo così superficiale ed unilaterale preclude dunque strade preziose come quella che vede l’errore uno strumento legittimo attraverso il quale si può raggiungere  un successo frutto di sforzi e fatiche, di lacrime e sudore spesi per un traguardo ritenuti veramente importante, senza troppe illusioni.

Serra conclude l’articolo citando il caso dell’artigiano toscano che solo dopo molto tempo riesce a cedere la sua attività ad un ragazzo di origine rumena, l’unico ad accettare la sfida della bottega di sarto. Parla dunque del triste destino dei vecchi mestieri in Italia, un tempo patria di inimitabili artigiani ed artisti, che oggi è in mano a noi ragazzi, al quale tuttavia non prestiamo la dovuta attenzione proprio perché attratti dal bagliore effimero della luce dei riflettori, tentati dal successo e dalla popolarità effimeri. E non si tratta di “cogliere l’attimo” sfondando (ammesso che succeda) nel mondo della televisione per il quale l’uno è esattamente uguale all’altro, ma di lasciarselo sfuggire per occasioni veramente rilevanti per se stessi e per la comunità. Si parla di ragazzi con talenti che non appartengono loro, sprecandone altri veri, “più riposti ma scintillanti” e tuttavia non sufficientemente adatti per catturare l’attenzione del pubblico. Non direi di potermi riconoscere nei temi trattati nell’articolo, né di sentirli vicini alla mia personalità; questo perché non tendo a basare le mie aspirazioni ed ambizioni sull’esposizione (televisiva) di un mio ipotetico talento. Mi definirei maggiormente, piuttosto, qualcuno di adatto alle botteghe dell’arte dove si impara con l’errore, con la fatica, nell’ombra del maestro. 

L’ultima frase dell’articolo cita: “Non c’è abbastanza ombra, sotto i riflettori, per conoscere se stessi”; questa frase esprime con franchezza la realtà odierna, che lascia i riflettori a chi non conosce se stesso né i propri talenti volendo tuttavia affrontare il palco come se fosse una cosa da poco, per la quale non occorrono specifiche doti. È l’ingenuità dell’essere superficiali che attrae il pubblico ai nostri giorni. È la filosofia della frettolosità e della disattenzione a prevalere tra la gente, oggi. È come se nessuno si aspettasse più di avere a che fare con persone degne di essere sul palco, come se non contasse nulla. Per conoscersi servono tempo, umiltà e silenzio, serve crescere nell’”oscuro apprendistato”, allora sì che ci saranno le "stelle" interiori pronte a brillare e ad essere osservate. Fino ad allora, tutti saranno “concentrati” a fissare il prossimo anonimo concorrente entrare in scena, privato del tempo necessario per curare la propria esibizione e costretto ad esibire quanto in suo potere, lì ed in quel preciso momento.


 

Caterina Canevari 

Anais Ciobanu
 

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