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LA STRADA GIUSTA

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Mi accompagna da sempre una singolare curiosità per i tanti volumi posizionati con cura sugli scaffali delle librerie del salotto di casa. C’è sempre stato qualcosa in quei grandi libri dai titoli misteriosi che già da tempo mi spingeva inconsapevolmente ad osservarli; lasciando che le domande mi riempissero la mente, restavo lì, in piedi, con il volto rivolto verso l’alto e lo sguardo assorto. Quando poi ho imparato a leggere, ho iniziato a dare un nome proprio a ciascuno di loro: “Codice penale”, “Codice di procedura civile”, “Diritto del lavoro e della previdenza sociale”, “Diritto costituzionale”, “Diritto amministrativo” e molti, moltissimi altri. Naturalmente e gradualmente iniziavano a sorgere in me altrettante domande, le quali mi hanno portato a chiedere a mia madre che lavoro facesse: “L’avvocato, Caterina. Io sono un avvocato”. 

Credo proprio che il mio interesse per questa professione e, in generale, per l’ambito giuridico, sia nato in quell’istante, da quella risposta. I libri sugli scaffali dovevano dunque essere suoi. Lei aveva studiato tutti quei testi, sui quali si basava la sua professione. Ricordo quanto rimasi confusa dopo un confronto con i miei compagni di classe, alla scuola primaria. Nessuna delle loro mamme faceva l’avvocato. Questo non fece che aumentare le mie domande a riguardo, che però non potevo rivolgere a mia madre, sempre indaffarata, al lavoro. La cosa che iniziai a fare, dunque, fu quella di ascoltare come si rivolgeva al suo interlocutore, mentre parlava, al telefono, di “cose di lavoro” (come ho imparato a chiamare il motivo delle sue lunghe permanenze in ufficio ogni pomeriggio, al mio ritorno da scuola): il lessico che utilizzava, ciò di cui stava parlando. Arrivai dunque a scoprire chi sarei voluta diventare da adulta. Avevo deciso, ormai. Sarei diventata come la mamma: un avvocato. Oggi, nonostante il tempo trascorso da quella “fatidica” domanda, la mia decisione non è mutata; il ruolo che pertanto ricoprirò da adulta molto probabilmente sarà quello di avvocato penalista. 

Il nome deriva dal latino advocatus, participio passato di “advocare”, ovvero chiamare presso, inteso nel senso di chiamare a difesa.

È importante contestualizzare questa professione nello spazio e nel tempo: i primi riferimenti in merito a tale professione hanno radici profonde nella storia. Si ritiene che i primi a ricoprire in modo molto simile a quello odierno il ruolo di avvocato siano stati gli oratori greci. L’oratoria, arte della parola e tecnica di comunicazione, nasce nel V secolo a.C. L’arte di esporre un discorso argomentato in maniera adeguata, al contempo persuasivo ed elegante, è un genere inventato dai Greci. La figura dell’avvocato, esattamente, non esisteva; l’accusatore e l’imputato sostenevano personalmente le loro ragioni e quando non erano abili nell’arringa, si servivano di logografi, cioè scrittori professionisti, a pagamento, presso i tribunali. 

È solo nell’antica Roma che la figura dell’avvocato inizia ad acquisire i tratti principali che la caratterizzano ancora oggi. Tuttavia, a differenza di oggi, all’epoca era per l’avvocato esclusa la possibilità di accettare un compenso per perorare (cioè “sostenere, difendere con entusiasmo") la causa di un certo soggetto. Volendo fare riferimento all’accezione odierna del termine “avvocato”, i primi esempi risalgono all’Impero romano.

Negli anni del suo regno, dal 41 al 54 d.C., l'imperatore Claudio legalizzò infatti l'avvocatura come professione e permise agli avvocati romani di esercitare apertamente, imponendo un limite di compenso di 10.000 sesterzi (che, apparentemente, non doveva costituire una grande somma). Inoltre, nell’antica Roma venne introdotto il diritto romano, ossia l'insieme di norme che ha composto l’ordinamento giuridico dalla fondazione di Roma (753 a.C.) fino alla fine dell’Impero di Giustiniano (565 d.C.) 

Alla figura dell’avvocato si aggiungevano il giureconsulto (il giurista, l’esperto del diritto dal quale si recavano le parti), l’oratore (colui che, appunto, “parlava” nel processo, ma in presenza del cliente, non avendo la rappresentanza processuale) ed, infine, il procuratore (chi agisce in nome e per conto di un soggetto stipulando atto che vanno ad incidere nella sfera giuridica di quel soggetto). 

L’avvocato era un libero professionista che svolgeva, innanzitutto, un compito di assistenza e consulenza verso il proprio cliente. La maggior parte delle cause era di natura civilistica. Di norma, l’avvocato era un amico influente di persone legate all’ambito politico, oppure amico dei familiari del soggetto che doveva assistere. Chi ricopriva tale ruolo doveva possedere una buona versatilità e sapersi adattare ai vari contesti in cui si trovava, in base alle esigenze del settore a cui faceva riferimento la causa. 

Nell’epoca medievale, poi, le funzioni dell’avvocato persero la struttura dell’epoca classica andando incontro ad un periodo di decadenza, per rifiorire poi con il Rinascimento. Nell’età moderna si è diversificato il modo in cui gli istituti romanistici sono stati declinati per formare la professione forense, organizzata in ordini professionali, che garantivano in ogni caso il rispetto dell’indipendenza della categoria.

La figura dell’avvocato è oggi disciplinata in modo diverso nei vari stati del mondo. 

In Italia l’avvocato è un libero professionista che si occupa di consulenza, assistenza e rappresentanza legale. Un Regio Decreto emanato nel 1933 all’articolo uno stabilisce che: “Nessuno può assumere il titolo, né esercitare le funzioni di avvocato o di procuratore se non è iscritto nell'albo professionale”. 

Il mestiere di avvocato, fino a non molto tempo fa, poteva essere esercitato esclusivamente da uomini; anche tra il XIX ed il XX secolo, epoca in cui le legislazioni sono diventate meno vincolanti nei confronti dei cittadini e  le donne hanno iniziato ad acquisire una maggiore “voce in capitolo” all’interno della società, a queste ultime era permesso di svolgere professioni come la maestra o la segretaria, ma non quella di avvocato. Si credeva, infatti, che le donne non potessero essere in grado di amministrare la giustizia perché ritenute incapaci di sostenere un ruolo che richiedesse credibilità e rigore. Paradossalmente, proprio in quegli anni (1855), in Piemonte nasceva però Lidia Poët, la prima avvocatessa d’Italia. 

Studentessa brillante, con una particolare propensione per le materie umanistiche e le lingue, otto mesi dopo aver conseguito il diploma di maestra, otteneva anche la maturità classica. Non solo. A differenza di molte coetanee, Lidia decideva di proseguire gli studi iscrivendosi alla facoltà di legge dell'Università di Torino, frequentandola con ottimi risultati. All’età di ventisei anni era tra le prime donne laureate in giurisprudenza, con una tesi sulla condizione della donna nella società e con approfondimento del tema del diritto di voto. Seguiva quindi la sua richiesta d’iscrizione all’albo forense, approvata dall’Ordine degli avvocati di Torino, con otto voti favorevoli e quattro contrari: a ventotto anni Lidia diventava la prima avvocatessa italiana. 

La sua nomina veniva però successivamente impugnata dal procuratore generale della corte d’appello di Torino, con richiesta di annullamento. Le motivazioni venivano evidenziate nella dichiarazione del novembre 1883, in cui si precisava che l’avvocatura fosse “esercitabile soltanto da maschi”, che le donne non avrebbero dovuto “immischiarsi” perché sarebbe stato “disdicevole e brutto vedere le donne discendere nella forense palestra e agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi”. A Lidia veniva dunque precluso l’esercizio della professione nelle aule di giustizia, in quanto donna. 

Dopo anni di battaglie e sacrifici, nel 1919 il Parlamento approvava finalmente una legge che ammetteva le donne ai pubblici uffici, ad eccezione della magistratura;  all'età di 65 anni, pertanto, finalmente, Lidia si vedeva riconosciuta la possibilità di esercitare quale Avvocato. 

Centocinque anni dopo la promulgazione della legge che ha permesso anche alle di donne di poter esercitare liberamente l’avvocatura, ho rivolto alcune semplici domande a tre avvocati: mia madre e due colleghi dello studio legale, per comprendere in che cosa consista oggi questa professione. Per introdurre il loro discorso hanno fatto riferimento al titolo di studio necessario per svolgere questo mestiere: prima di tutto, per poter diventare avvocato, è necessario conseguire il diploma di scuola secondaria di II grado (vari percorsi di studio vi permettono l’accesso ad esempio ogni tipologia di liceo) ed una laurea in Giurisprudenza (che ora consiste in una laurea magistrale a ciclo unico, mentre i tre intervistati hanno frequentato un corso universitario triennale al quale si aggiungeva una specializzazione biennale) successivamente alla quale si richiede un praticantato (la pratica forense) in uno studio legale per la durata di diciotto mesi e lo svolgimento di un corposo esame che abilita all’esercizio della professione forense. 

Per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro, la stessa si caratterizza per l’autogestione: non vi sono rigide fasce orarie nelle quali si svolgono le varie mansioni (al di fuori degli orari stabiliti dal Tribunale, dalle cancellerie e dalle pubbliche amministrazioni per ricevere appuntamenti) ed è fondamentale che un avvocato sia in grado di gestire debitamente il proprio tempo a disposizione per poter ricevere i clienti ed i colleghi che assistono le controparti, studiare le pratiche e redigere gli atti. Un aspetto che è fondamentale in questo lavoro e che si lega profondamente all’autogestione è la diligenza, che si riflette, ad esempio, nell’accurato studio delle pratiche in relazione alle norme attualmente in vigore ed in continuo aggiornamento e nel rispetto delle scadenze di deposito degli atti, che si caratterizzano per essere per lo più termini perentori (cioè inviolabili, non prorogabili), anche se questo rigore è meno presente nel diritto penale che, insieme al diritto civile, costituiscono i due ambiti fondamentali del diritto. 

Rientra nel settore civile per esempio la materia dei contratti, delle obbligazioni, delle persone e della famiglia, delle successioni per causa di morte e della responsabilità civile e porta il civilista ad occuparsi delle relative controversie, con trattazione prevalentemente scritta.  

Nel settore penale sono invece ricomprese le norme che regolano i comportamenti illeciti, per i quali è prevista una pena. Questo ambito si occupa delle misure repressive dei reati e il compito dell’avvocato può essere quello di tutelare i diritti della persona che dichiara di essere vittima del reato (cioè la persona offesa) oppure della persona imputata (del reato), durante tutto l’arco delle indagini e del processo giudiziario. Il processo penale prevede una trattazione prevalentemente orale, sfruttando l’oratoria e la retorica, che sono le arti della comunicazione. L’avvocato presta il suo supporto al cliente di fronte all'autorità giudiziaria in tre gradi di giudizio (Tribunale, Corte d’appello e Corte di cassazione).

Principio molto importante, che sta alla base di questo lavoro, è quello di cui all’articolo ventiquattro della Costituzione italiana, che recita: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione.” Il cosiddetto Gratuito patrocinio consente anche alle persone prive di mezzi economici adeguati, la possibilità di essere in ogni caso difesi e assistiti da un avvocato (facendone ricadere le spese sullo Stato, non sul cliente). 

L’avvocato, dunque, ha anche il compito di elevare il proprio lavoro il più in alto possibile utilizzando tutte le risorse ed il materiale in suo possesso per cercare di garantire al cliente, indipendentemente da chi esso sia, una seconda opportunità, ed il miglior risultato, ovviamente nei limiti della legge. Lo dimostra Atticus Finch, uno dei personaggi principali del romanzo “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee; Atticus è un avvocato americano, bianco, incaricato di difendere un uomo afroamericano accusato di aver fatto violenza su una ragazza bianca. Riuscirà a dimostrarne l’innocenza in maniera a dir poco inconfutabile, come in suo dovere, ma il pregiudizio razzista largamente diffuso in quegli anni (il romanzo è ambientato negli anni trenta del Novecento) renderà il suo impegno vano. Atticus è un avvocato, ma soprattutto un padre che riflette i princìpi base del suo lavoro nell’educazione dei propri figli, in grado di portarli ad essere due bambini estremamente intelligenti, curiosi ed autosufficienti, senza però essere vanitosi. Atticus gestisce perfettamente il tempo per la famiglia, nonostante quello dedicato al lavoro, e ciò anche senza la presenza di una figura materna. Avvocato, quindi, inteso anche come figura che trasmette i principi del proprio lavoro pure nell’educazione dei figli, portandoli all’acquisizione di competenze multidisciplinari, rendendoli capaci di autogestirsi e di organizzarsi in maniera eccellente; avvocato come artista che, all’interno della sua bottega, del suo laboratorio, progetta e plasma la sua arte, insegnandola poi indirettamente all’apprendista, il figlio. 

Altra componente fondamentale, per l’esercizio della professione di avvocato, è quella psicologica. È necessario che il professionista sia in grado di instaurare, da completo autodidatta, legami empatici con il cliente, basati sulla fiducia reciproca, che dovrà permanere nel corso di tutto il mandato. In caso contrario, potrà accadere che il cliente revochi l'incarico dato all’avvocato oppure, al contrario, che quest’ultimo si dimetta dal mandato. 

Concentrandosi, invece, sulle differenze tra l’odierna professione e quella del passato, sicuramente si riscontra il fattore economico: oggi all’avvocato vengono riconosciuti compensi adeguati all’impegno ed al sacrificio spesi per lo svolgimento del proprio lavoro; è un professionista che gode di rispetto e riconoscimento all’interno della società. Tuttavia i tre professionisti hanno fatto notare come la più grande gratificazione e soddisfazione giunga nel momento in cui il proprio assistito veda riconosciuta dal Giudice una situazione che gli restituisca giustizia, garantendo la tutela di una determinata situazione giuridica che precedentemente risultava violata o comunque fortemente a rischio. Non solo; si tratta di un lavoro in continuo divenire. È completamente esclusa la possibilità di annoiarsi, in quanto non esiste una situazione che possa essere uguale ad un’altra, vi saranno sempre dettagli che determineranno una valutazione di quella fattispecie in maniera completamente diversa anche da una simile già verificatasi. Essere un avvocato, tuttavia, comporta anche, spesso e necessariamente, una percezione piuttosto diffidente di ciò che ci circonda, anche se, al contempo, ciò permette di tenere sempre alta l’attenzione, di esaminare bene le situazioni che quotidianamente si presentano e di vivere costantemente con un livello di produttività ed organizzazione elevati, con sviluppo e mantenimento di qualità e competenze multidisciplinari (del multitasking), caratteristica ormai fondamentale della società odierna. 

In un’epoca quasi schiava della tecnologia, anche l’avvocato ha dovuto adeguarsi ed infatti il deposito degli atti e la trattazione delle udienze avviene per lo più telematicamente.

Con i lati positivi ed i lati negativi, questa professione mi affascina moltissimo; l’ho percepito dagli sguardi, dai sospiri e dai sorrisi di mia madre, punto di riferimento per me fisso e stabile, anche nella scelta della professione che vorrei tanto avere il privilegio di esercitare da adulta. L’aspetto che ho sempre ammirato e che tuttora ammiro di mia madre è la sua capacità di essere più persone contemporaneamente. Quanto fascino ha per me il fatto che riesca a portare avanti tante situazioni, così diverse tra loro, in maniera eccellente e sempre con il buon umore. Credo che questo sia un equilibrio che si possa trovare solo a seguito di molti, moltissimi sacrifici e senza dubbio anche di qualche sofferenza, che porta però, in conclusione, ad una solida consapevolezza. Mi sento molto simile a lei a livello caratteriale e libera di confidarmi con lei su ogni cosa poiché, in modo intelligente, so che troverebbe il modo migliore per confortarmi. Sono convinta che tutto questo le derivi proprio dal lavoro che svolge. Con coraggio vorrei quindi puntare in alto, verso una professione che mi tenga viva ogni giorno, con nuove sfide e stimoli, con i piedi pur sempre ben piantati a terra.

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Caterina Canevari

 

Caterina Canevari

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