ATHOS: un sogno spezzato
1917-1944
​
Sono nato a Bozzolo, in provincia di Mantova, il 16 marzo del 1917, proprio nel pieno della Prima Guerra Mondiale. Mia madre è di origine italiana e mio padre di origine ebraica. La mia infanzia è stata caratterizzata da tanto affetto ma da poche cose materiali, viste le condizioni umili della mia famiglia in quegli anni. Mio papà ha sempre lavorato come muratore e imbianchino mentre mia mamma ha fatto la sarta, in un piccolo laboratorio di confezioni. Fin da bambino ho avuto una grande passione per il gioco del calcio (era per me la prima palla di pezza il gioco più amato) e anche una buona predisposizione naturale. La passione me l’ha trasmessa mio papà Dan e da bambino giocavamo in cortile a calcio: lui mi allenava alla corsa e ai tiri di precisione.
Nel paese avevamo creato una squadra fra amici ed era bellissimo giocare insieme. All’età di 11 anni gli osservatori della Cremonese hanno notato il mio talento e io sono andato a giocare da loro. Ero uno dei più bravi in squadra e il mio ruolo preferito era l’ala sinistra. Ero molto scattante, veloce e pieno di tecnica e dribblavo gli avversari come se fossero cinesini. I miei genitori mi hanno sempre sostenuto e fatto molti sforzi per pagare le mie spese sportive. All’età di 15 anni gli osservatori del Torino hanno notato la mia bravura e mi hanno chiamato nella loro società. Sognavo di giocare in un Club forte come quello, infatti il mio idolo era Feliciano Monti, ala sinistra del Torino. Per permettere la realizzazione di questo sogno i miei genitori si sono dovuti trasferire in questa città. Non è stata facile questa decisione, perché la mia famiglia era molto inserita nella comunità bozzolese e non è stato facile trasferirsi. Mia mamma purtroppo nel capoluogo torinese non è mai riuscita a trovarsi un lavoro ma la situazione economica della famiglia è stata sostenibile grazie ai miei primi stipendi da calciatore e dal lavoro di mio padre in una ditta locale di tinture.
Nel club torinese mi sono trovato molto bene e già nel 1935, all’età di 18 anni, ho esordito in prima squadra. Ero felicissimo, questo momento lo sognavo da molto e ringrazierò per sempre l’appoggio dei miei genitori che hanno sempre creduto in me. In quella stagione ho fatto 3 gol e 5 assist contribuendo al buon rendimento della squadra. Il Torino in quella stagione è arrivato terzo. Niente male per un ragazzo giovane alla prima stagione in Serie A. L’unica cosa che mi preoccupava un pò è stato l’arrivo del fascismo. Tutta la famiglia non sosteneva le idee di Benito Mussolini ed era preoccupata per le sorti dell’Italia. Però continuavo a giocare e cercavo di non preoccuparmi di questo aspetto.
Nel secondo anno ho fatto 5 gol e 6 assist un po' meglio della stagione scorsa. Non sono numeri altissimi, ma sono stato il giocatore più giovane della Serie A ad ottenere quei numeri. Anche nel 1936 il Torino è arrivato terzo in classifica. Molte squadre italiane come l’Ambrosiana Inter e come il Bologna (squadra vincitrice di 3 scudetti di fila) nel 1937 si interessarono del mio cartellino, ma io ho scelto di rimanere al Torino perché mi trovavo bene e perché lo trovavo un ambiente costruttivo dove era possibile migliorare in fretta. Avevo ragione: la stagione 1937-1938 è stata quella dell’esplosione del mio talento. Con 17 gol e 13 assist sono stato il primo giocatore per somma di gol e assist in tutto il campionato italiano. Un traguardo eccezionale considerando la mia giovane età. Non mi sarei mai aspettato di arrivare in questo livello ma l’allenamento duro e costante ha dato i suoi frutti. Dati questi risultati da favola Vittorio Pozzo decise di convocarmi al Mondiale di calcio del 1938 in Francia. Avevo la possibilità di giocare con Mazzola, Piola e Monti, tre eroi che da bambino sognavo di raggiungere. Era qualcosa di incredibile per me e per la mia famiglia.
Tutto sembrava filare liscio, finché non si misero in mezzo il Fascismo con le sue Leggi razziali. Infatti, essendo di origine ebraica, stavo iniziando a conoscere le limitazioni: niente feste, niente partecipazione a eventi pubblici, mi sono dovuto separare dalla mia ragazza conosciuta a Torino un anno prima. Purtroppo mi è stato vietato il diritto di giocare a calcio in squadre come il Torino e la nazionale italiana. Proprio sul più bello il mio sogno è stato interrotto. Non potevo andare al mondiale e non potevo più giocare per il Torino, squadra che mi aveva preso come bandiera. Dopo questo ho capito che in Italia non ci potevo più stare, le oppressioni agli Ebrei stava diventando troppo pressante, quindi mi sono dovuto separare dai miei genitori e abbandonare alla vita clandestina per cercare di scappare alle persecuzioni.
Ho chiesto a mio padre se, essendo anche lui di origine ebraica, voleva scappare con me ma lui con molta umiltà ha detto che sarebbe stato un peso a carico mio. Ho provato a opporre resistenza ma lui ha preferito rimanere a casa. In quel periodo soffriva anche di un forte mal di schiena e faceva fatica a camminare. Dopo questo momento non ho avuto più notizie della mia famiglia. Purtroppo.
Nel 1939 mi sono rifugiato in Ungheria con il mio allenatore di calcio del Torino, Ernest Egri Erbstein, uomo forte e buono, anche lui ebreo, non poteva più rimanere in Italia. Avevamo molta paura, non capivamo cosa stava succedendo ma insieme ci facevamo coraggio giorno dopo giorno. Appena arrivati a Budapest abbiamo fatto la vita dei vagabondi, trovando poi rifugio e ospitalità da un parente di Erbstein che ci ha protetto e tenuti nascosti fino al 17 aprile del 1943. Una sera, il 17 aprile del 1943, durante una perquisizione nazista nella soffitta dove eravamo nascosti, le guardie tedesche ci hanno notati, catturati e poi portati nel campo di concentramento Belzec in Polonia. Picchiati, spogliati e trattati come bestie. Nel campo ci facevano giocare a calcio per il divertimento delle guardie e scommettevano su di me. Se perdevo non mi davano da mangiare e addirittura mi prendevano a bastonate. È stato terrificante. Non ho più saputo niente dei miei genitori e ogni sera pregavo per loro. Erbstein riuscì a scappare una notte del novembre del 1944 ma io non ce l’ho fatta, non avevo più le forze.
​
​
Athos Bianchi morì nel campo di concentramento di Belzec il 2 dicembre del 1945 all’età di 27 anni. Rimarrà come esempio per le nuove generazioni per il suo impegno, talento calcistico e voglia di non arrendersi mai.
Marco Bettoni
Io al Torino con la mia squadra di calcio. 1936.
Io a Bozzolo con i miei amici della scuola elementare. 1925.