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LA FAMIGLIA KIEN

 

 

 

 

 

 

 

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Oggi è stato un pomeriggio un po’ diverso dal solito. Accompagnato dalla mamma sono andato ad incontrare una famiglia iraniana che da sette mesi vive nel mio comune, Romprezzagno. Penso sia una grande occasione conoscere queste persone che sono vissute in una realtà completamente diversa dalla mia. La famiglia è composta da quattro persone: il padre, un ingegnere idraulico; la madre, un’assistente sociale; una figlia di 24 anni, studentessa di farmacia e un figlio di 18 anni, studente presso il liceo scientifico Aselli di Cremona. All’ingresso, come loro usanza, ci hanno fatto togliere subito le scarpe e ci hanno fatto accomodare sui divani del soggiorno, dove per terra erano stese coperte al posto dei tappeti. Davanti a noi un tavolino con dei dolci tipici iraniani, alcune tazze di tè ed una ciotolina contenente uva passa. Il padre ci ha salutato velocemente ed è uscito subito per portare alcuni curriculum perché è alla ricerca di un lavoro qualsiasi, anche se il figlio ci ha detto che in Iran lavorava in una società di gestione delle acque e rivestiva un ruolo importante.  La madre capisce e parla abbastanza l’italiano, ma tutti hanno cercato di rispondere alle mie domande. Saman, questo il nome del ragazzo, ci ha detto che sono arrivati in Italia tre anni fa, appena prima del lockdown, e che la loro destinazione finale doveva essere la Danimarca, dove si erano già stabiliti alcuni dei loro parenti. Infatti, prima di arrivare in Italia, avevano fatto un viaggio in Danimarca per vedere il paese dove avrebbero dovuto abitare una volta lasciato l’Iran. Ma le cose non vanno sempre come vengono programmate ed alla fine si sono ritrovati in Italia dove hanno soggiornato in diverse città soprattutto del nord. Ho chiesto perché hanno lasciato il loro paese e la mamma mi ha risposto che sono scappati perché professano la religione cristiana evangelica e, in un paese in prevalenza islamico, si sentivano in continuo pericolo. Chi non crede in Allah viene infatti punito con l’impiccagione. Questa loro fuga è stata un passo molto difficile e doloroso, hanno rinunciato a tutto: posizione lavorativa di prestigio, una bella casa, due automobili e  tutti i loro affetti più cari. Insomma, si sono lasciati alle spalle una vita agiata e sicura per arrivare fino a qui, un piccolo paese dove non trovano nemmeno i servizi essenziali.  La cosa che manca a tutti tantissimo è il non poter parlare la loro lingua, il persiano, al di fuori della famiglia. Anche lo stile di vita è totalmente differente perché le persone, in generale, sono abbastanza fredde e non danno loro confidenza.  La mamma raccontava che la vita a Teheran è completamente diversa: mercati pieni di gente, tanta confusione in giro a qualsiasi ora del giorno e della notte, case “aperte” all’accoglienza dell’altro, profumi che escono dalle finestre spalancate e porte che non sono mai chiuse all’accoglienza dell’ospite.  Ascoltando il suo racconto mi è venuto in mente il bazar dove si rifugiava Enaiat, il protagonista del libro “Nel Mare ci sono i coccodrilli” di Fabio Geda,  durante le sue ore di riposo dal duro lavoro. Ciò che mi ha raccontato la signora me lo ha quindi confermato. In Iran, dell’Europa, si dice che sia “come il paradiso” ma poi, arrivando qui, la verità è ben diversa. Alla fine ho chiesto se tornerebbero nel loro paese e la mamma mi ha risposto che fino a quando non cambierà il tipo di governo, loro resteranno in Italia. Prima di andare via, per ringraziarli della disponibilità, abbiamo lasciato loro un dolce, con la promessa che saremmo andati ancora a trovarli al più presto.

Leonardo Cappelli

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