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MICHELANGELO BUONARROTI

 

Roma, fine marzo 1510

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La primavera è sempre prepotente, qui a Roma. La incontro mentre entro nella cappella, ne percepisco la forza dalla luce che vedo farsi più intensa, dalle finestre del palazzo Vaticano.

La mia mente è un turbine di idee, mentre giorno dopo giorno sfido l’altezza e le difficoltà per dare alla volta lo stupore della meraviglia. Con le giuste pennellate, diventerà un racconto da ammirare per l’eternità. Sono orgoglioso di partecipare a questa impresa che vede qui riunito il genio del mio tempo, e sono fortunato ad essere abbastanza giovane. Le mie gambe mi consentono di arrampicarmi su scale molto alte e resistere alla sfiancante maratona di ore ed ore di lavoro. Non è la stanchezza ad impensierirmi. Quando sono lassù, mi rendo conto che la sera mi coglie senza che io me ne accorga. I volti e i corpi a cui do vita sembrano catturarmi nel loro mondo, tanto che molti giorni mi dimentico di scendere per rifocillarmi e il mio cesto rimane intonso.

Papa Giulio II ama farmi visita di tanto in tanto, ed osservare il procedere dei lavori. Non si esprime mai, ma i suoi occhi tradiscono lo stupore di fronte a tanta bellezza. Non ci parliamo molto, ma è il suo silenzio a farmi capire che in me vede l’arte di uno spirito illuminato da Dio. Eppure, io non sono mai appagato appieno. Ceco sempre di guardare oltre, di osare di più. Amo dipingere; è come stare su una nuvola, mi isolo da tutti e da tutto.

Però non sopporto quel giovane presuntuoso di nome Raffaello Sanzio che con la sua sfacciata spavalderia sembra sfidarmi, di là, a pochi passi da me. Mi affaccio per sbirciare la parete su cui sta lavorando. Sono stupito che riesca anche solo a maneggiare quel pennello. I volumi, l’intensità drammatica delle scene, la grazia degli sguardi. Capisco che il suo prodigio abbia convinto a dispetto dei suoi pochi anni. E mi sorprendo a dubitare che in realtà la mia insofferenza verso di lui non nasconda invidia.

È ormai sera e il sole sta calando, sono molto stanco ma una perenne insoddisfazione mi spingerebbe a spingere la notte più in là, per ultimare gli ultimi dettagli di oggi. Finalmente, scendo dalle altezze della volta e rimetto i piedi a terra. Paradossalmente, mi sento meno a mio agio qui, in mezzo agli uomini, che lassù, tra le creature a cui do vita. Così assorto, mi dirigo a casa, immerso nei mei pensieri. È notte fonda e non riesco a dormire. Apprezzo la notte e l’oscurità, mi aiuta a pensare e a riflettere sulle mie opere e sui miei obiettivi. Tra il sonno e la veglia mi è appena apparsa un’idea eccezionale nella mente: un giudizio universale. Una scena straziante, colossale, straordinariamente drammatica, dipinta su una parete enorme. Qualcosa che possa entrare nella storia dell’umanità. Una scena che il delicato pennello di Raffaello non oserebbe neppure avvicinare.

 

 

Ventiquattro anni dopo la conclusione dei lavori nella volta, Michelangelo ritorna nella Cappella Sistina per decorare la parete dietro l'altare, abbandonando lo schema precedentemente utilizzato, in cui architettura, scultura e pittura si fondevano in una rappresentazione unitaria e sublime, per proporre invece come sola architettura quella dei corpi coinvolti in un movimento convulso e continuo, contrapponendo all'uomo forte e sicuro dell'Umanesimo una visione caotica che investe sia i beati sia i dannati, espressione delle insicurezze della nuova epoca.

Rachele Baboni

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