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LA RIVOLUZIONE IN CLASSE

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Valle dello Swat, Pakistan, 9 ottobre 2012. Era un giorno come tutti gli altri, stavo tornando a casa da scuola con il pullman ed era ora di pranzo. Improvvisamente vidi due giovani uomini fermare l’autobus e non ebbi modo di rispondere alla loro domanda “Chi è Malala?”, alla quale le compagne più piccole si girarono di istinto verso di me. Le ultime cose che ricordo sono che stavo pensando al ripasso che avrei dovuto fare per il giorno dopo e il suono di tre spari, di cui l’ultimo mi colpì alla testa. Tutte le mie compagne iniziarono ad urlare e piangere, mentre sanguinavo dalla testa e dall’orecchio sinistro, l’autista guidò il più velocemente possibile fino allo Swat Central Hospital. Mi ritrovai distesa su una barella, con la testa coperta da una benda, gli occhi chiusi, i capelli sparsi sul cuscino. C’erano persone dappertutto, dottori, giornalisti, attivisti, presidi di varie scuole e poi c’era lui, mio padre, che mormorava ininterrottamente parole di conforto e non riusciva a staccarsi dal mio letto nemmeno per un minuto; tutti i figli sono speciali per i propri genitori ma per lui io ero il suo mondo. Non provai niente nei confronti della persona che mi aveva sparato, mi dispiaceva solo di non aver avuto l’occasione di parlare con loro prima che mi colpissero, non ho mai avuto nemmeno un singolo pensiero o progetto di vendetta. 

Sono nata il 12 luglio 1997, secondo la maggior parte della popolazione pakistana  il giorno in cui nasce una femmina è triste, al contrario di quando nasce un maschio, dove per tradizione bisogna gettare nella culla frutta secca, dolci e monetine. Il mio nome, Malala, significa afflitta, triste, oppressa dal dolore, ma indica anche l’eroina di guerra Malalai (simbolo della vittoria contro gli inglesi nel 1880), questo nome mi è stato dato dai miei genitori: mio padre, Ziauddin Yousafzai, è un insegnante di teologia in una scuola superiore governativa; lui è diverso da tutti gli altri uomini che vivevano in quelle zone, perchè a differenza loro è sempre stato un buon padre e un marito molto amorevole ed affettuoso, ha deciso anche di fondare una scuola femminile con i suoi soldi e con uno scuolabus che venisse a prendere le alunne; mia madre, invece, Pekai Yousafzai, ha smesso di andare a scuola a sei anni perciò le manca l’istruzione necessaria, è intensamente religiosa e va a pregare sempre cinque volte al giorno così come suggerisce il Corano. Baba era il mio unico nonno, padre di mio papà, quando mi vedeva cantava sempre in pakistano: "Malala è di Maiwand ed è la persona più allegra del mondo” per rallegrarsi del significato triste del mio nome. Ho anche due fratelli più piccoli di me Atal e Khushal.  

Il nostro villaggio, che noi chiamiamo Barkana, è circondato da pendii montuosi, lì è vissuto mio padre, vicino ad altri due villaggi tra cui Karshat dove abitava mia madre. Le abitazioni sono fatte di fango e pietre, con il tetto piatto. Di notte il villaggio è molto buio, illuminato solo dalle lampade a petrolio che si intravedono nelle case sulle colline. Vivo in un contesto sociale molto severo, le donne non possono lavorare, studiare e neanche uscire di casa senza il consenso del marito, devono coprirsi sempre il capo e il viso con un velo, nei matrimoni sono le famiglie a scegliere il futuro marito o moglie e la nascita di una bambina è considerato un peso sociale, al contrario dei bambini. 

Sono una ragazza con dei modi di fare cittadini, mi piace andare in giro con i piedi nudi, leggere libri e pregare abitualmente. Ho iniziato presto ad andare a scuola e all’età di sette anni ero già la prima della classe, aiutavo i compagni in difficoltà e partecipavo a tutte le attività scolastiche, ho sempre avuto un’amore per lo studio e ho sempre pensato che con l’istruzione sarei riuscita a realizzare i miei sogni. Non possiedo molto ma le cose che ho le utilizzo e sviluppo al meglio, il mio sogno è quello di aiutare la gente bisognosa e far capire a tutte le persone che il mondo in cui viviamo non è ancora in pace, in molti stati ci sono ancora problematiche di diritti, di libertà, d'istruzione e anche di espressione. Il mondo in cui viviamo siamo noi. 

Alla fine del 2007, improvvisamente, i talebani arrivarono nella Valle dello Swat e il mio stile di vita cambiò radicalmente; iniziarono a prendere il controllo con la forza, vietando ogni forma di divertimento, imponendo il burka a tutte le donne e togliendo loro tutti i diritti, non volevano che le femmine andassero a scuola o avessero un lavoro, dovevano solo svolgere il ruolo di madri e mogli segregate in casa. E in tutto questo nessuno fece sentire la propria voce in segno di protesta, questo era ciò che mio padre non sopportava e io gli davo retta, se stiamo tutti zitti allora non cambierà niente. I talebani nel frattempo iniziarono a radere al suolo tutte le scuole, e gli insegnanti lasciavano il loro lavoro perché venivano minacciati, così entro il 2008 ben quattrocento edifici scolastici vennero distrutti, il nostro futuro era a rischio. L’acqua iniziò a mancare e la poca che c’era non era potabile, iniziarono a diffondersi perciò delle malattie e lo Swat Central Hospital non aveva abbastanza spazio per accogliere tutti i malati, questo tuttavia era solo uno dei tanti problemi emersi dopo l’arrivo dei talebani, la realtà era ben più terrificante. Vista la situazione, mio padre decise di portarmi a Peshawar presso un’associazione di giornalisti, per discutere contro la chiusura delle scuole, lì la BBC (la più importante trasmissione rete inglese) iniziò ad avvicinarsi a noi per ricevere delle notizie e decisi così di scrivere un blog nella loro rete di siti web, dove parlavo delle condizioni di vita in cui eravamo costretti a vivere, dei diritti che ci erano stati tolti, dell’istruzione negata, della sottomissione e della paura che sentivamo ogni istante. Firmavo tutti i miei articoli con il nome Gul Makai, che significa fiore di granturco. 

L’ottobre del 2011 papà mi disse che ero una delle cinque candidate per il premio internazionale della Pace di Kids Rights, ma purtroppo non fui io la vincitrice. Poco tempo dopo, quando ero ancora a scuola, fui informata dalle mie compagne di aver vinto il Pakistan National Peace Award, la scuola si riempì di giornalisti e io ero incredula a ciò che mi era appena stato riferito; il 20 dicembre 2011, alla residenza ufficiale del primo ministro, mi fu consegnato il premio che in mio onore fu chiamato Malala Prize, non ero affatto nervosa ormai ero abituata ad incontrare personaggi importanti come politici e parlare di fronte ad un pubblico. I miei genitori tuttavia non erano molto soddisfatti, mio padre temeva che onorare le persone ancora in vita fosse segno di sfortuna, mentre mia madre non amava che io stassi al centro dell’attenzione, perchè aveva paura che potessi diventare un possibile bersaglio, e forse non aveva tutti i torti. I talebani riuscirono a scoprire e rintracciare  la mia vera identità. Il 9 ottobre 2012, quando stavo tornando da scuola, avvenne il famoso attentato. Dopo quell’incidente fui prima portata nello Swat Central Hospital e poi spostata con un elicottero all'ospedale di Peshawar, fortunatamente non ero a rischio di morte. Arrivarono poi moltissime offerte dal Malala Fund oltreoceano per pagare le mie cure e alcuni ospedali si offrirono di accogliermi, prendendosi cura di me gratuitamente. Venni così accettata al Queen Elisabeth Hospital, mi svegliai il 16 ottobre senza sapere dove fossi, dov’erano i miei genitori e chi mi avesse portato lì. Seppur con alcune difficoltà riuscii a riprendere la seconda vita che mi è stata donata da Dio. Il dicembre del 2014, all’età di diciassette anni, ad Oslo, mi è stato consegnato il Premio Nobel della Pace, diventandone la più giovane vincitrice. Nel 2020 mi sono laureata ad Oxford e al giorno d’oggi continuo a lottare per la libertà e l’istruzione delle donne. Ho scritto anche diversi libri come “La matita magica di Malala”, “Siamo tutti profughi” e “Io sono Malala”, libro che parla della mia biografia, dove il mio obiettivo è quello di far sentire la mia voce in nome di moltissime altre bambine e ragazze di tutto il mondo che non hanno la possibilità di andare a scuola e di realizzare i propri sogni. Riguardo all’amore sono sempre stata riluttante all’idea di un matrimonio, ma il 9 novembre 2021 ho deciso ufficialmente di annunciare le mie nozze con Asser Malik.

Voglio che ricordiate questo: non c'è niente di speciale in me, avrebbe potuto essere qualsiasi altra ragazza della Valle dello Swat a parlare, l'unica cosa diversa nella mia storia è che mio padre non mi ha mai fermata.

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Sofia Chizzoni

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