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 UN NOME, UNA RIVOLUZIONE

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È il 13 settembre. Indosso questo velo che mi copre tutto il corpo, in fondo, come ogni giorno. Il caldo pomeridiano del Teheran mi sta però soffocando. Sono le sei e mezza e mi trovo con i miei genitori e mio fratello all’uscita dell’autostrada Shahid Haghani. Non capisco davvero: ho solo ventidue anni eppure è dalla metà della mia vita che sono costretta a indossare il velo. Non l’ho deciso io, sono stata obbligata dai miei genitori, molto credenti. Questa “regola”, detta necessaria, è tale da secoli. Con la rivoluzione islamica del 1979, l’Iran divenne una Repubblica Islamica Shiita, con una Costituzione ispirata al Corano. Ciò determinava, nel passato e tutt’ora, meno autonomia.  

È parecchio impressionante come il valore di ogni donna venga rivestito da leggi religiose che non permettono di vivere totalmente libere. Vorrei permettermi un po’ d’indipendenza. Chiedo troppo? 

Siamo passati davanti alle guardie e hanno iniziato a guardarmi in modo strano. Ma perché? Si avvicinano e cominciano a strattonarmi. Non ho fatto nulla, come potevo reagire? Mi accusano di non indossare bene il simbolo delle donne islamiche, il velo. Ma non era vero! Lo stavo subendo da tutto il giorno. Ho capito poi che si intravedeva una ciocca, una. Ho dichiarato più volte di non essere abitante del Tehran. Io sono residente a Saqqez, ma non mi hanno degnato neanche di una minima attenzione. Valgo davvero così poco? 

Mi hanno arrestata e gli sento ripetere che devono darmi “una lezione di moralità". Mentre mi allontanavo vedevo sempre più impauriti gli sguardi della mia famiglia, mi sentivo così impotente. Siamo donne alle quali è stato sottratto il diritto di essere libere, di fare quello che vogliamo, solo perché tali.  Ho subito una serie di colpi che sentivo risuonare sempre di più sulla mia pelle e nella mia carne. Non riesco a gridare, non riesco a fare nulla. Non respiro più. Mi hanno portata all’ospedale Kasra e, appena arrivata, le luci luminose della struttura diventarono ad un tratto fosche. La mia mente si fa sempre più annebbiata fino a quando il mio cervello smette di pensare e mi lascio trasportare da quelle sensazioni di pace che interrompono le mie riflessioni. Mi rendo conto di non riuscire a muovermi, di non riuscire a parlare. Ma cosa mi è successo? Non ricordo nulla.

E’ passato un giorno da quando sono in ospedale. Sento che il medico parla con i miei genitori e che mi devono trattenere per più tempo e in terapia intensiva. Perchè dicono che devo rimanere di più?  Ma la domanda che mi pongo di continuo è il perchè io non riesca ad aprire i miei occhi e a comunicare con la mia famiglia. Mi sento chiusa nel mio corpo, intrappolata qui, nel vuoto.

I miei giorni sono passati così, ma più nessuno, oltre ai miei famigliari, mi veniva a trovare. Non so e non voglio sapere il motivo.

Sono passati due giorni dal mio arrivo all’ospedale, però mi sento sempre più stanca ogni ora che passa. Ascolto il suono del monitor accanto a me che segna il mio battito. Mi sento impotente e ancora una volta il governo ha avuto la meglio su noi donne. Mi manca il respiro, non reggo più. Il rumore del macchinario accanto a me diventa piano piano un unico suono monotono. E’ finita il 16 settembre 2022.

Forse è veramente questo il mio destino, solo che non lo avevo mai letto del tutto o forse non ne ero stata capace. Noi donne, qui, da quando siamo nate, ne abbiamo uno che sarà per sempre scritto dagli uomini, che non capiscono la nostra sofferenza, che non capiscono chi siamo. Perché opprimere la nostra mente, senza darci la libertà di fare una scelta? Io da quassù osservo, guardo tutto ciò che dicono sulla mia morte, ma solo io so la verità. Io so cosa è successo quel giorno, eppure non potrò mai più dare voce a me stessa, alla mia storia. 

Vedo dall’alto mio fratello piangere così intensamente che mi sento in colpa di non essere stata abbastanza forte. Sta facendo un’intervista per i telegiornali. 

<<Cosa farete ora?>> chiede un giornalista.

<<Ora piangiamo mia sorella>> risponde lui. 

Credo di non essermi mai sentita più vulnerabile e fragile di così in quel poco di vita che ho vissuto. 

La polizia iraniana ha provato a diffamarmi, diffondendo notizie false sul modo in cui sono morta. Le lesioni sulle mie gambe e sulle mie braccia dovrebbero dimostrare tutto. Ma no, loro hanno sempre ragione, sono loro che manipolano la situazione, sono loro e solo loro che sanno e affermano che sia malata, che abbia dei problemi cerebrali, quando invece sono sempre stata sana e la mia famiglia ne è consapevole. L’ospedale dove ero ricoverata pubblica su Instagram un post in cui afferma che ero già cerebralmente morta quando sono arrivata al pronto soccorso. Il post è stato eliminato dalle autorità il 19 settembre, ma ormai la notizia si è diffusa a livello internazionale. Sono uscite allo scoperto le loro falsità. Mio padre Amjad non ha potuto vedere il rapporto della mia autopsia e alla richiesta delle registrazioni delle telecamere di sorveglianza della stazione di polizia, risposero che le telecamere erano fuori uso. Vigliacchi. Non riuscirete mai ad insabbiare la mia storia.

Una cosa, che ritengo sia l’unica positiva, è che la mia storia è stata condivisa al mondo. Io, una donna Iraniana, sono diventata simbolo della libertà. Le donne si stanno facendo valere, stanno gridando per avere i diritti che aspettano da una vita. Al mio funerale grandi Donne hanno rimosso il velo che sono state costrette ad indossare in pubblico fin da bambine, perché minacciate a colpi di frusta e si sono tagliate delle ciocche di capelli, quelle ciocche per cui io sono stata uccisa. Nessuno si aspettava un tale coraggio, nessuno si aspettava un cambiamento prima della mia morte. Invece qualcosa è sbocciato, la forza di quello che vogliamo esprimere sta emergendo, finalmente. I capelli sotto quel velo vanno mostrati, vanno fatti respirare. Ed è questo respiro che fa paura, ma non a noi, al “nostro governo” che impone, sempre per paura, diversi blackout di internet per impedire la diffusione delle notizie sui social. Chi ha realmente paura? Noi, che stiamo imparando a imporre la nostra identità a chi vuole sgretolarla o chi si impossessa delle vite degli altri per prevaricarle e non permettere un futuro? 

L’onda di proteste che hanno seguito dalla mia morte hanno purtroppo presentato moltissime vittime, circa cinquecento manifestanti, uccise dalle forze “di sicurezza”.  Ma nonostante si sia consapevoli che spesso si va incontro alla morte si continua, ci si batte tutti, insieme. 

Forse inizialmente non sono stata io l’autrice del mio destino. Durante la mia vita ho subito tante prepotenze. Tutto ha un senso.  Se la mia morte ha riacceso il fuoco in ogni donna ringrazio chi ha voluto spegnere me, per far brillare le altre stelle presenti nel cielo. 

Io non ci sono più, ma la mia anima vacilla ancora, la sento viva. La voce che non riuscirò più ad avere sta assillando il governo iraniano. Io non me ne sono mai andata e mai me ne andrò. Sono qui e ascolto tutto.

 

Silvia Makishti

Elisa Melegoni

Tommaso Dalseno

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