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LE OMBRE DI UNA LEGGENDA

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Sono sdraiata sul letto, con lo sguardo fisso al soffitto. Sono in preda al delirio, al panico. Provo tante emozioni indicibili. Alla mia destra noto abiti lussuosi, trofei e riconoscimenti. Nell’altro lato osservo i farmaci e l’unica foto che ho con mia mamma, di cui fatico a ricordarne l’esistenza. Decido di sedermi. Guardo in basso ed esamino la droga che circonda il letto. E’ dappertutto. Scendo dal letto. Prendo in mano la sostanza più vicina a me. Voglio farla finita, per sempre. Ripeto a me stessa “Perché lo sto facendo? È davvero la scelta giusta?”. Cerco di ignorare i miei tormenti. Striscio senza forza verso il comodino. Afferro la foto con mia madre e rifletto sul motivo per cui io stia così.  "Perché mi hai abbandonato? Cosa ti ho fatto? lo meritavo?” mi chiedo guardando la foto. Mentre rifletto sui momenti infelici che ho trascorso nella mia infanzia, sento una lacrima scivolare sulla mia guancia: la vedo cadere e bagnare la foto di mia madre. Avverto una sensazione di rabbia che mi fa scaraventare la foto sul pavimento. Porto le mani alla testa. Il tormento è atroce. Sento un senso di nausea. Non mi riconosco. Non sono io.  Non riesco a resistere. Opto di allungare il braccio, in direzione dei farmaci. Ne raccolgo uno. Lo ingoio. Decido di prenderne altri. Mi fanno stare veramente bene o almeno così mi sembra.  Ad un certo punto, crollo. Non riesco a stare seduta. Mi corico, porto le ginocchia al petto e chiudo gli occhi. Passati pochi secondi intravedo un bagliore di luce e riesco a vedermi. Vedo la vera me. Norma Jean Mortenson. Sono nata il primo giugno 1926 al Country Hospital. In questo momento sono in braccio a mia madre, Gladys Pearl Monroe, la quale non sembra felice. Ha lo sguardo fisso verso la parete, gli occhi spenti. Non mi degna di un’occhiata. Mi porge nelle braccia dell’infermiera sussurrando di allontanarmi dalla sua vista. Mia madre mi ritiene uno sbaglio? Passate circa due ore l’infermiera mi riconduce verso mia madre, la quale firma dei documenti e mi registra all’anagrafe, inserendo il cognome del suo ultimo marito: Edward Mortenson.  Sono passati tre anni da quando sono nata. Sono in cucina con mia mamma e sento bussare alla porta. Entra un uomo in casa, non so chi sia, mi pare un dottore che comunica che le è stata diagnosticata una schizofrenia paranoide. A causa dei pochi soldi e della malattia, Gladys decide di darmi in affidamento. Fino all’età di sette anni convivo con Wayne e Aida Bolder ma, per un certo periodo, ritorno a convivere con mia madre, ancora molto debole e priva di forze. Per questo vengo affidata a Grace Mckee, una sua cara amica, che mi ha fatto sviluppare l'interesse per il cinema. Dopo il matrimonio della mia tutrice Grace, dal 1935 fino al 1938 abito in un orfanotrofio. Durante questo periodo convivo con svariate famiglie, in totale undici. In questi anni non ho ricevuto amore ma solo odio, violenze psicologiche e fisiche. Mi sentivo un fiore cadente, non venivo ascoltata, la mia voce era trasparente e le parole aria. La mia libertà era stata schiacciata.  Più venivo trascurata e maltrattata, più mi rifugiavo nei film. All’età di quindici anni ritorno a vivere con Grace che però, insieme al marito, voleva trasferirsi in Virginia per una buona offerta lavorativa. I miei tutori non mi volevano tra i piedi, quindi mi fecero sposare, nel 1942,  a soli sedici anni con James Dougherty, un nostro vicino di casa. Dopo due anni dal nostro matrimonio James fu chiamato ad arruolarsi in guerra ed io iniziai a lavorare come operaia in una fabbrica, la Radio Plane: mi occupavo di impacchettare i paracadute e verniciare le fusoliere degli aerei. Nel 1945, in un tipico giorno di lavoro, un fotografo decise di recarsi nella fabbrica per fare qualche scatto per la rivista “Yank”. Mi ricordo quel giorno come se fosse stato ieri. Venni fotografata per un servizio volto a tenere alto il morale delle truppe al fronte.

Quella maledetta foto era diventata un successo e mi aveva cambiato radicalmente la vita da un giorno all’altro. Ero diventata un’icona di bellezza e sensualità, tutta l’America parlava di me. Eppure, quando ero piccola, nessuno si complimentava della mia bellezza. Avevo iniziato la carriera di modella, avevo tinto i capelli d'un biondo platino, avevo imparato a sorridere alle telecamere e avevo migliorato la mia dizione. La mia fama aumenta, posavo per le riviste più famose e importanti. Se avessi avuto la testa di oggi, non avrei continuato quella strada. Nel 1946 firmo il mio primo contratto cinematografico che però, un anno dopo, viene rescisso. Dicevano che ero scarsa nel campo della recitazione drammatica. Tutto ciò a quei tempi mi aveva ferito, però non mi sono fatta abbattere, sono molto ambiziosa e non accetto gli scarti. Piano piano avevo cominciato con ruoli di comparsa, fino a conquistare piccole ma significative parti dei film. Mi ricordo “Eva contro Eva” o anche “Monkey Business”. La mia popolarità era esplosa nel ‘53 con alcuni film che, se non ricordo male, erano  “Niagara” seguito da “Gli uomini preferiscono le bionde” e infine “Come sposare un milionario". Ormai ero diventata per tutti Marilyn Monroe e il mio nome sarebbe diventato una leggenda. Da sempre sono stata una donna intelligente, sensibile, ma agli occhi della gente risulto solo una sgualdrina o una bella bionda svampita. Non sono né l'una né l'altra. Sono una persona con idee e opinioni bellissime e soffro molto quando gli altri non riescono a guardarmi col cuore e a vedere oltre al mio involucro. Nel ‘54 avevo sposato il campione del Baseball, Joe DiMaggio ma la nostra unione dura solo dieci mesi. Dopo quella rottura ho voluto cambiare, e iniziare a focalizzarmi principalmente sul mio lavoro. Mi sono trasferita a New York per studiare a l’Actors studio. Qui avevo incontrato il mio terzo marito, il commediografo Arthur Miller. Anche con lui purtroppo, dopo cinque anni, abbiamo divorziato. Per tutta la mia vita ho continuato a cercare quel vero amore in grado di colmare tutti i miei vuoti. Ho cercato di andare avanti così per un bel pò di tempo da sola, senza aiuti, senza nessuno che mi sostenesse, che conoscesse il mio vero stato mentale, ma questo mi autodistruggeva e ho pensato che i farmaci e le droghe fossero la mia unica via d’uscita. E adesso sono qui…per l’ultimo respiro. 

Vivi a testa alta…

manda giù, ridici sopra,

evita il dramma, corri il rischio

e non avere rimpianti. 

 

Sabrina Gajim

Rim Nour Eddine

Carmen Mazzali

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