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Caporetto, 24 ottobre 1917

 

Cara mamma, 

 

oggi dovrebbe essere il 24 ottobre 1917. Sto mantenendo la posizione presso il fronte di Caporetto. Sto scrivendo alle 18:15, prima che inizi il mio turno serale di sentinella. È soltanto da poche settimane che mi hanno chiamato per fare servizio al fronte e già vorrei tornare a casa. Mi mancate molto, tu e papà, mi manca il potervi vedere mentre sono davanti a un piatto di buon cibo, al caldo del camino. Sono particolarmente turbato perché l’Austria ci sta attaccando e noi non siamo preparati ad un attacco visto che fino ad ora siamo stati attaccati solo una volta e l’unica cosa che posso fare è sperare in bene, come faccio sempre, anche quando vedo i miei compagni cadere “come foglie d’autunno”. Non comprendo il motivo per cui ci debbano obbligare a rischiare la vita per uccidere dei nostri fratelli, spacciati per barbari; centinaia di migliaia di vite perse per un territorio, tra le quali anche quelle di cittadini morti di fame per la carenza di cibo e quelle di soldati morti per cause naturali o scarse condizioni di vita. Ogni minuto provo l’ansia che possa arrivare un attacco d’artiglieria o un bombardamento a gas; ho sentito anche dire che il nemico invierà dei soldati con maschere antigas armati di mazza ferrata per finire i soldati svenuti o moribondi. Provo un odio immenso per coloro che ci hanno mandati in guerra senza neanche sapere a cosa andavamo incontro e probabilmente anche se lo avessero saputo non gliene sarebbe importato. In trincea ogni giorno si respira l’odore dei cadaveri dei compagni caduti insieme a quello delle nostre feci e del fango che rendono l’aria irrespirabile. Durante il giorno poi, devo condividere lo spazio con i miei commilitoni, ai quali riesco raramente a parlare dato che quasi tutti parlano un dialetto differente dal mio. Per il combattimento ci hanno dotati di elmetti con l’interno in pelle che presentano una crestina con due feritoie per far passare l’aria: servono a proteggerci dalle schegge e dai fortissimi spostamenti d’aria e dai suoni provocati dall’impatto dei colpi di artiglieria. Mi piacerebbe avere con me una vostra foto perché mi potrebbe portare un po’ di gioia in questi momenti in cui l’unica cosa che si può fare è sognare e sperare in un futuro migliore. Se potessi sarei già fuggito perché qui si può morire da un momento all’altro: si muore per malattia, per crolli e frane, oltre alle fucilate e ai colpi di artiglieria, mentre se facessero un attacco a gas difficilmente l’ordine di mettere le maschere antigas arriverebbe in tempo e in pochi lo comprenderebbero (perché sarebbe stato impartito in italiano e molti soldati capiscono solo il loro dialetto). Le condizioni di vita in trincea sono terribili:  in ogni momento mi fa compagnia l’ansia per gli spari che si sentono con grande frequenza, prima del suono della fucilata del cecchino, si sente il rumore dell’impatto del proiettile, poi lo scoppio dello sparo vero e proprio e, più raramente, si può sentire lo sfaldamento dei proiettili ad espansione (la controparte austriaca delle nostre “palle girate”, proiettili che all’impatto si aprono a fungo e provocano una ferita più grande del normale). Mi chiedo se valga la pena creare una ferita più difficile da curare solo per essere sicuri di mettere fuori combattimento la vittima del proiettile. Inoltre, si temono particolarmente le nuove armi come le mitragliatrici, i lanciafiamme e gli shrapnel (granate che esplodono in aria sparando in ogni direzione pallette di piombo o tondini di acciaio per cui abbiamo occhiali antischegge appositi).

Ti saluto raccomandandoti di non preoccuparti per quello che hai appena letto perché, se tutto andrà bene, la guerra finirà presto e potremo finalmente riabbracciarci.

 

Tuo Diego

 

Diego Caporale

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