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LUIGI MERLINI

Mi chiamo Luigi Merlini, e sono nato a Firenze, nel 1896. Sono stato un tenente nella Grande Guerra. Io ero il tenente del 3° battaglione, della 229° fanteria. Ho vissuto passivamente la disfatta di Caporetto. Era il giorno 24 ottobre 1917. Quel giorno cominciò male. Una pioggia maledetta e, nel buco dove eravamo cacciati, fango e acqua per terra tanto da non poter uscire. Io e Ortelli, l'aspirante del '98, stavamo sotto una tenda, e dormivamo in due barelle da portaferiti. Il freddo umido e penetrante ci consigliò di dormire fino all'ora di mensa, ma purtroppo questa ritardava in un modo spaventoso per i nostri stomaci affamati. Quando finalmente venne la mensa, vennero anche le notizie. Il nemico, dopo il violentissimo bombardamento sul fronte tenuto dal 230°, aveva occupato qualche elemento di trincea, ma dal 230° stesso e dal nostro 2° battaglione, era stato ricacciato e aveva lasciato un centinaio di prigionieri. Verso le 19.30 eravamo sempre a letto. Ci apprestavamo ad addormentarci, quando ci venne dato l'ordine di star pronti a partire entro mezz'ora per  attraversare  l'Oscedrik. Al comando di brigata sostammo e piano piano, sottovoce, cominciarono a circolare le prime voci. Non andavamo a riposo, bensì ripiegavamo. I battaglioni di rincalzo (come il nostro) avrebbero preso posto sull'Oscedrik. Voci di sfondamento cominciavano a circolare; credevamo fossero le solite esagerazioni ed invece non lo erano. Gli austriaci sono già ad Auzza sull'Isonzo! - si diceva. La notte del seguente giorno, il 25 ottobre 1917, camminavamo in silenzio, valicando la selletta 876 del'Oscedrik. Un aeroplano nemico volava basso sopra di noi. La luna ci illuminava perfettamente: la selletta di quota 876 era perfettamente brulla. Di corsa traversammo il tratto scoperto, tutto sconvolto dalle granate della giornata. Ad un tratto, una straordinaria esplosione, una luce abbagliante! Mi sentii sollevare da terra col respiro mozzato, senza raccapezzarmi, senza sapere se fossi vivo o morto. Vedevo solo una gran pioggia di fuoco intorno a me e sentivo un gran coro di lamenti. Finalmente mi trovai sbattuto violentemente a terra, con il volto rivolto verso terra, tutto stordito e dolorante. Non so quanto possa essere durato questo volo, fra la pioggia di fuoco, ma certo deve essere stato brevissimo: il tempo di un'esplosione! A me parve un'eternità. Non saprò mai descriverlo efficacemente, non saprò mai raccontarlo quell'istante, ma non saprò mai neanche dimenticarlo! Poi, trovammo un colonnello di non so quale reggimento, egli non seppe darci nessuna indicazione. Ci disse che era inutile cercare la vetta del’Oscendrik, e degli altri monti della stessa catena, poiché c'era l'ordine di passare l'Isonzo. Il 26 ottobre 1917, in seguito ad un altra lunghissima camminata, ad un certo punto ci fermammo tutti d'un balzo: davanti ai nostri occhi, dove presumibilmente doveva trovarsi l'Isonzo, c’era tutta una fiammata. Dovevano essere incendi colossali. Certamente, prima di ritirarsi al di là dell'Isonzo, le nostre truppe incendiavano tutti i magazzini e i depositi che si trovavano sulla riva sinistra del fiume, per non lasciarli ai nemici. Tutto ciò serviva a scoraggiarci di più e a mettere sempre più desiderio di correre velocemente verso la salvezza. Era la mattina del 27 ottobre 1917, e dopo mezza giornata di camminata, potemmo coricarci, ed in quel momento assistemmo ad uno spettacolo pirotecnico. A qualche chilometro di distanza, fra gli incendi ancora dinanzi a noi, bruciava un deposito di razzi. Erano centinaia di migliaia di razzi di ogni colore (quelli da segnalazione) e bianchi (quelli che ci servivano per illuminare lo spazio fra le nostre e le loro trincee) che salivano in aria. Se non si fosse stati così depressi dal pensiero che tutto quel materiale costosissimo veniva distrutto perché non cadesse in mano al nemico che ci aveva vinti, sarebbe stato uno spettacolo divertentissimo. Qui, a Brazzano, frazione di Corno Rosazzo, luogo nel quale ci fermammo per un paio di giorni, un fatto doloroso mi colpì. Un fatto che in seguito dovetti constatare su larghissima scala. L'abbandono delle armi. Per terra, qua e là, erano fucili abbandonati, cinturini, baionette. Il primo indice del dissolvimento, che fino allora non si era mai mostrato. Il giorno seguente, il 28 ottobre 1917, appena ci svegliammo, e appena radunati i soldati, il colonnello ci chiamò a rapporto. Proverò a descrivere il quadro, ma per quanto l'abbia così ben chiaro, netto, scolpito nella memoria (nonostante i due anni di distanza) non ci riuscirò certamente. Non ricordo, in vita mia, una giornata più vivida di quella. In silenzio, radunati in bell'ordine attorno al colonnello, stavamo fermi impalati sull'attenti. La faccia del colonnello era del colore di quel cielo, fosca come l'aria che ci circondava. Cominciò a parlare a voce bassissima, quasi strozzata e ci mise al corrente della situazione. Nella notte era stato chiamato al comando di divisione, gli avevano esposto la situazione e letto il proclama di Cadorna, che cominciava con le parole: “il nemico... è riuscito a porre piede sul sacro suolo della patria” e concludeva dicendo: “La patria è in pericolo”. Gli Austro-Tedeschi avevano sfondato, non si sa per quale causa a Tolmino ed avevano fulmineamente occupato le vallate dell'Indrio e Matisone, minacciando così di aggiramento le due ali dell'esercito, rimasto tagliato in due. La seconda e la terza Armata a destra, la quarta a sinistra, avevano l'ordine di ripiegare sul Tagliamento, contendendo al nemico palmo a palmo il terreno, onde dar tempo ai carreggi, alle artiglierie, al grosso dell'esercito, di passare i ponti. La nostra divisione (la decima, comandata dal ten. gen. Chianetti) avrebbe fatto parte delle truppe di copertura della 2° armata, che, tergiversando nel ritirarsi, dovevano dar tempo alla 3° armata di ritirarsi al completo. Descrivere il nostro stato d'animo all'annuncio è impossibile. Nessuno aveva le idee chiare su quello che era successo. Era un sogno, un terribile sogno, non voleva entrare in testa che fosse una realtà. Ci guardavamo in faccia istupiditi, increduli di quanto sentivamo, profondamente accosciati. Lasciare quelle terre ridivenute nostre a prezzo di tanti sacrifici, bagnate col sudore della nostra fronte, con le lacrime dei nostri occhi, col sangue delle nostre vene, quelle terre di cui ogni metro possedeva il cadavere di chi  l'aveva conquistato coll'olocausto della propria esistenza. Lasciare tanto suolo sacro della patria in mano al nemico tirannico, che tornava a spadroneggiarvi sopra, dopo cinquant'anni di assenza. Tornare al punto di partenza e più indietro dopo tanti sacrifici e patimenti che ci avevano portati così avanti! Terminatosi il rapporto, ci incamminammo per una via passando davanti alla chiesa. La strada era completamente ostruita da una colonna di camion, carri, salmerie, artiglierie, tutti fermi, perché nessuno riusciva a muovere un passo, tanto erano agglomerati. Un po' sulla strada, un po' per i campi laterali, sguazzando in un fango grosso, pesante, che ci faceva camminare a gran fatica, proseguimmo per chilometri e chilometri, sempre con la strada piena zeppa di carreggio. Il 29 ottobre 1917 eravamo arrivati a Mortegliano, ed immaginatevi il sonno che aveva ognuno di noi. Ricordo perfettamente che ogni tanto, pur  camminando automaticamente, mi addormentavo, facevo qualche passo barcollando, perdevo l'equilibrio e mi svegliavo appena in tempo per rimanere in piedi. E come me, tutti! Sbattevamo col petto, con la testa nelle carrette, nei muli, nei camion, senza vedere niente, per il buio e per gli occhi chiusi. Il dormire camminando non si creda sia un'esagerazione. È un fenomeno che si manifesta di rado, perché di rado si arriva a tal punto da dormire in piedi. Ma noi eravamo in condizioni di straordinaria stanchezza. Gli occhi si chiudevano senza che noi ne avessimo percezione. Ci si svegliava di soprassalto, per una forte scossa prodotta dalla perdita di equilibrio, dopo due o tre passi fatti meccanicamente dormendo. Camminammo, ancora e ancora, ed il 30 ottobre 1917, arrivammo in un paese nel quale potevamo riposarci: Villacaccia. Un nostro compagno era stato ferito. Si era preso una fucilata. In una barella era adagiato Berti, pallido all'estremo, quasi livido, non parlava, si lamentava solo di aver freddo. L'aspirante medico che l'aveva fasciato lo riteneva agli estremi. La pallottola, entrata nel petto con un forellino, era uscita dalla schiena dalla quale ad ogni respiro uscivano fiotti di sangue! Una cosa impressionante! Dopo la ritirata fu dato per disperso; nessuno volle dire alla famiglia che era morto,  ma ognuno di noi lo pensava. In quelle condizioni, affidato a quattro portaferiti, era lecito supporre che appena gli Austriaci si fossero avvicinati, sarebbe stato abbandonato alla sua triste sorte. La supposizione era confermata dal fatto che fino a dicembre, mese in cui noi stammo in Italia, la sua famiglia non ne aveva  notizie e ne chiedeva a noi. Era il settimo giorno della ritirata di Caporetto. Era il 31 ottobre 1917. Traversammo per i campi fino a raggiungere la via principale per Codroipo. Lo spettacolo che offriva la strada è indescrivibile. Il raccapriccio, lo scoraggiamento provato nel vedere a che punto era arrivato lo sfacelo del nostro esercito, non saprò mai dirlo. Immaginatevi uno stradone largo circa 8 metri, lungo a perdita d'occhio, tutto gremito di carri, carrette, artiglierie, cannoni, automobili, motociclette, insomma tutti i veicoli usati oggigiorno. Immaginatevi tutti questi veicoli rovesciati o spezzati o sfasciati, ribaltati con tutti i carichi sparsi per terra, casse sventrate, fogli per tutto, interi archivi di comandi sparpagliati. Si camminava in fretta calpestando uniformi, biancheria, medicinali, carte. Tutti i rifornimenti necessari ad un'armata per potersi muovere, poter vivere, poter combattere: e gli uomini continuavano a sentire necessità di tutto. Eravamo arrivati al Ponte Madrisio, e ci eravamo resi conto della salvezza: il Tagliamento era in piena. A guardare giù, l'acqua nera faceva paura. Non si vedeva che buio profondo, infinito, per la forte oscurità, ma si sentiva il rombo tremendo delle acque che passavano con una velocità spaventosa ruggendo sonoramente. Gli spruzzi dell'acqua che si frangeva contro le pile arrivavano fino a noi. Essa doveva essere così alta, da toccare quasi il livello del ponte, che per poco non era sommerso. Guardai l'orologio: erano circa l'una e trenta del giorno 31. Ora memorabile! Il Tagliamento era raggiunto, la disastrosa ritirata era finita, lì ricominciava la nuova guerra.  

Sohaib Nasr Allah

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