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LUIGI BRAGA

Luigi Braga. Nato a Milano il ventisette febbraio dell’anno 1899. Arrualotosi a diciotto anni, durante il I conflitto mondiale fu sottotenente del genio militare e fece parte della 215esima Compagnia zappatori. 

 

Di seguito, alcuni stralci tratti dal libro di memorie dell’anno 1990 e “realizzato in dattiloscritto su appunti sporadici dell’autore annotati su taccuini e agendine che lo stesso recava con sé quando si svolgevano i fatti narrati”, come lui stesso lo definirà.

 

“Sud-est del colle Montello, giugno 1918

All’inizio di giugno, da sintomi imprevedibili ma numerosi e insistiti, si avverte che qualche cosa di nuovo sta per accadere. Lo si intuisce, oltreché per l’infallibile e mai smentita radio-fante (così chiamavamo l’occulta diffusione di notizie tra noi commilitoni), anche per una più attiva sorveglianza aerea nemica ed una più intensa attività dei nostri. Ho ancora negli occhi lo sfrecciare improvviso dell’aeroplano di Francesco Baracca seguito con entusiasmo da noi tutti che osservavamo trepidanti i suoi duelli aerei. Questo abilissimo pilota, romagnolo di Lugo, era un ufficiale di Cavalleria della classe 1888, passato all’Aviazione e divenuto pilota di caccia. Aveva avuto la sua prima vittoria aerea il 6 aprile 1918, la prima in assoluto dell'aviazione italiana. Due soli mesi prima della sua morte; due mesi di epopea, di grandiose gesta eroiche. In settantadue giorni si era impegnato in sessantatre combattimenti aerei abbattendo trentaquattro apparecchi nemici, il numero più alto mai raggiunto da un aviatore dell'Aeronautica Italiana. Spesso tornava dai suoi voli intrepidi con l’apparecchio sforacchiato da proiettili di mitragliatrice; ma sempre impassibile, intrepido e sicuro. Le tre medaglie d’argento che gli furono concesse e la medaglia d’oro al valor militare conferitagli come “primo pilota da caccia in Italia, campione indiscusso di abilità e coraggio, sublime affermazione delle virtù italiane di slancio e di audacia”, danno risalto alle sue specialissime abilità di aviatore e di combattente. Cadde trentenne nel cielo del colle Montello il 19 giugno 1918: mentre volava a bassa quota sopra le linee nemiche, venne colpito da una banale pallottola di fucile che bucò il serbatoio della benzina del suo aereo provocandone l’incendio. Della sua gloriosa morte dette annuncio lo stesso bollettino di guerra Cadorna del giorno 21 giugno 1918. E fu una perdita gravissima: Baracca apparteneva già alla leggenda; era il simbolo della rivincita, l’eroe del quale, noi che eravamo al fronte, ci sentivamo attratti e spronati.”

 

“Fossalta di Piave, agosto 1918

Ricordo un episodio che allora non mi diede alcun senso di raccapriccio e che oggi, invece, a ripensarci, non può non turbare: tanto da non capacitarmi della mia insensibilità di allora! Camminavo dunque lungo la trincea, accompagnato da un Caporale di Fanteria, quando questi si fermò per indicarmi qualcosa che aveva osservato al di là del fiume: al di sopra della trincea nemica si vedeva distintamente un ufficiale austriaco che, stando con la testa allo scoperto, con un cannocchiale puntato verso il cielo, osservava due aerei impegnati in un duello. Ricordo perfettamente che non aveva in testa l’elmetto, ma invece l’alto classico cheppì austriaco. Il mio caporale puntò il fucile, sparò e si vide quel copricapo, quella testa, riversarsi all’indietro colpita e stravolta. Io ammirai tanto la prontezza e la capacità del mio Caporale e me ne rallegrai con lui.”

 

Un altro passaggio scritto nello stesso periodo e nella stessa località:

 

“La 215ma Compagnia Zappatori rimase sul posto tutta la giornata: per rendere più agevole il passaggio del fiume con tempestivi interventi là dove risultasse necessario e intervenire con opportuni accorgimenti nell’intento di rendere quanto possibile scorrevole l’afflusso di uomini, munizioni e viveri verso la testa di ponte, l’area occupata dai nostri nel territorio del nemico.

Quale emozione fu quella di lavorare proprio in quella zona che solitamente guardavamo con preoccupazione e sospetto o cercavamo di spiare attraverso le fessure della nostra trincea! Ora del nemico c’erano soltanto le tracce. Tutto era a soqquadro: trincee, camminamenti, piazzole; tutto rovinato e semidistrutto. Andai alla ricerca di quei punti che conoscevo come postazioni degli attenti cecchini che ci curavano e tanto ci disturbavano quando lavoravamo. Ma come appariva trasformata la linea nemica rispetto a quella  che tante volte avevamo considerato e scrutato con ben motivato desiderio di individuarne i punti di forza da cui potevano derivare per noi danni micidiali! 

Molti i cadaveri dei nemici. Spinti dal nostro incalzare, gli austriaci si erano ritirati senza avere avuto il tempo di occuparsi neppure dei feriti più gravi.  Nella mia vita di guerra e di trincea, mi era purtroppo capitato spesso di trovarmi vicino a compagni feriti o colpiti a morte in episodi dai quali io ero uscito fortunatamente illeso; e allora la felicità di essere salvo ancora una volta, aveva in qualche modo mitigato l’impressione del tragico impatto con la morte. Ma qui, nella trincea e nei luoghi precipitosamente abbandonati dagli austriaci, dove il bombardamento prima e l’assalto alla baionetta dopo, avevano colpito con brutale violenza, quei morti, a terra, nelle posizioni più strane, così, vestiti, con l’elmetto in testa, alcuni ancora con l’arma in mano, mi fecero un’impressione tremenda, indimenticabile.”

Caterina Canevari

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