FRANCESCO ISOLA
Francesco Isola
Ardegna, Udine 6 luglio 1897 - aprile 1982
Soldato semplice della Brigata Alessandria
Scrive dopo il termine della Grande Guerra (49 pagine), probabilmente da casa sua.
Tutto il mio coraggio:
“Non lo nego, in quella prima sera, mi servì tutto il mio coraggio per mantenere la coscienza del mio compito, a ben vigilare, attraverso la feritoia, ulteriori mosse nemiche.”
“Nessun cambiamento sulle posizioni del fronte, il nemico non aveva conquistato nulla, anzi, aveva perso una sognata vittoria, la stessa che invece fu nostra, conquistata col sacrificio di tanti morti e feriti.”
Caporetto muore sulle labbra
“un brivido di raccapriccio mi agghiacciò il sangue, mi parve la fine: istintivamente indietreggiai cercando una possibile salvezza, ma un indemoniato selvaggiamente mi afferrò al collo per la giubba: voleva sapere dove si trovava il mio reparto; indicai non il rifugio da dove ero partito, ma il fronte su in alto sul Monte Smerli.”
Colpo di grazia
“Immaginatevi di vedere uscire da un rifugio un nostro compagno ferito con il passo vacillante che faticava a reggersi in piedi: una grossa ferita, ha uno squarcio profondo sul collo, gli sgorga il sangue copiosamente, non può più parlare, ha chiuso gli occhi, solo con le mani può invocare aiuto; non umana pietà ma solo odio di guerra, spinse uno di quelli che ci scortavano, un nemico, ad avvicinare il ferito e senza alcuna pietà col calcio del fucile, lo gettò brutalmente a terra: cadde il ferito, s’udì un rantolo, forse l’ultimo, quello che gli perdonava tanto soffrire.” - La richiesta del ferito poteva anche essere di mettere fine al suo dolore.
Una sera, verso i primi di maggio, mentre sul nostro settore di linea, sul Monte Vodil, si combatteva una furibonda battaglia, un contrattacco nemico in reazione ad una nostra controffensiva sull’altopiano della Bainsizza, un ordine, una tempestiva richiesta di rinforzi, ci fece recare sotto un micidiale bombardamento nemico, il posto di combattimento, la tremenda trincea.
Il nemico, con una potente controffensiva, aveva fatto dei vuoti nella nostra trincea e quei vuoi furono da noi colmati.
Non lo nego, in quella prima sera, mi servì tutto il mio coraggio per mantenere la coscienza del mio compito, a ben vigilare, attraverso la feritoia, ulteriori mosse e nuovi attacchi nemici.
Il potente bombardamento delle nostre artiglierie, in questo settore montano quasi senza vita, avrebbe ancora annientato ogni tentativo d’assalto nemico.
Ma non era così a valle (e cioè nella Bainsizza), per più giorni continuarono gli attacchi nemici eroicamente respinti dall’infermabile forza della fanteria, meravigliosamente aiutata dai cannoni dell’artiglieria.
Giornate di battaglia
E questa titanica lotta, ove ogni arma ed ogni ordigno micidiale toglieva la vita ad un essere animato, continuò ancora per qualche giorno, quando ritornò un po’ di tregua.
Nessun cambiamento sulle posizioni del fronte, il nemico non aveva conquistato nulla, anzi, aveva perso una sognata vittoria, la stessa che invece fu nostra, conquistata col sacrificio di tanti morti e feriti.
Trincee massacrate, camminamenti sepolti, ogni comunicazione interrotta, teleferiche infrante, sedi di comando distrutte: ecco i lavori di ricostruzione ai quali gran parte dei miei compagni vennero dedicati, lavori che venivano eseguiti solo nell’oscurità della notte.
In ottobre, non ricordo bene il giorno, ci spostammo a Caporetto.
Dopo alcuni giorni senza ricevere ordini, sentimmo un urlo da fuori, un ferito chiedeva aiuto!
Sì, un portaordini era stato ferito alla testa; venne raccolto e adagiato entro la nostra linea; balbettava delle parole incomprensibili, stava per morire e tutti noi con l’udito teso verso di lui, trattenendo il respiro, con l’ansia nel cuore, si cercava di afferrare dai suoi gemiti qualche notizia, qualche ordine, ma nulla.
Un’enorme ferita sopra l’occhio destro da dove usciva copiosamente il sangue aveva ormai ridotto in fin di vita quell’infelice compagno nostro: le sue labbra in quell’estrema agonia, balbettando ancora, volevano proprio dire quello che irreparabilmente era accaduto più lontano e la morte gli volle troncare la rivelazione della cruda verità, di quella verità che ci avrebbe certamente sottratti dall’avventura in guerra.
Ma lontano si sentiva il crepitare delle mitraglie; tutt’attorno a noi v’era il furibondo susseguirsi delle continue e spietate esplosioni di granate che casualmente aravano il terreno.
L’aria resa irrespirabile, impregnata di gas e dal fumo solfonico degli scoppi, da qualche granata a getto di gas asfissiante, ci fece afferrare volontariamente la maschera.
Quand’ecco il bombardamento nemico, circa verso le otto, lentamente cessò; già nei nostri cuori s’accese una speranza di conforto, alla fine dell’offensiva nemica.
Il mio comandante mi ordinò di andare al comando di brigata, distante circa 500 metri, ad assumere e così, messo il tascapane a tracollo con le gallette e le scatole di carne, m’incamminai.
Ero appena uscito dal rifugio quando all’improvviso, fulmineamente, mi si piazzarono dinanzi delle figure di soldati nemici che mi circondarono tenendo protese le baionette all’altezza del mio petto: un brivido di raccapriccio mi agghiacciò il sangue, mi parve la fine: istintivamente indietreggiai cercando una possibile salvezza, ma un indemoniato selvaggiamente mi afferrò il collo per la giubba: voleva sapere dove si trovava il mio reparto; indicai non il rifugio da dove ero partito, ma il fronte su in alto sul Monte Smerli.
Mi credettero e mi risparmiarono dall’uccidermi e così salvai i miei compagni che si trovavano nel rifugio; mi divincolai, i bottoni della giubba saltarono, il petto s’offerse alle baionette protese e solo la clemenza del più forte risparmiò la mia oscura morte e sulla fodera della mia giubba scrissero in lapis delle parole.
E così ormai prigioniero di guerra, tutto quello che sino allora avevo fatto, avevo sacrificato, svaniva in un nulla, per una fatalità di colpa che nemmeno era mia.
Piansi amaramente a trovarmi così!
Unitomi più innanzi agli altri miei compagni prigionieri, sotto buona scorta il nemico ci fece proseguire verso Tolmino.
Durante i giorni successivi rimanemmo nei pressi di Caporetto, sempre sotto stretto controllo del nemico.
Ad un tratto, sentimmo un sibilo, un lampo, un fragore potente e una granata esplose anche in mezzo a noi: che strage di vite!
Tutti stesi a terra: chi ormai morto, chi ferito e chi, per grazia di Dio mezzo illeso, ma stordito. Il muricciolo di una casa distrutta mi fece scudo dalle schegge, ero ancora una volta salvo.
Mi alzai barcollando, cercai uno scampo, un rifugio.
Il nemico era furente, ci perseguitava, ci faceva proseguire senza sosta e ad ogni costo verso il concentramento dei prigionieri.
Sorpassammo a valle, ma non seppi dove, la prima linea: quale tragica e commovente visione: cadaveri sparsi qua e là ; feriti agonizzanti senza soccorso, pozze di sangue già coagulato, la trincea irriconoscibile, i reticolati disseminati, armi infrante: ecco la concentrazione del dolore ove nessuna penna di scrittore avrebbe giammai descritto la grande e popolare verità.
E non meno tragici erano gli episodi umani.
Immaginatevi di vedere uscire da un rifugio un nostro compagno ferito con il passo vacillante che faticava a reggersi in piedi: una grossa ferita, ha uno squarcio profondo sul collo, gli sgorga il sangue copiosamente, non può più parlare, ha chiuso gli occhi, solo con le mani può invocare aiuto; non umana pietà ma solo odio di guerra, spinse uno di quelli che ci scortavano, un nemico, ad avvicinare il ferito e senza alcuna pietà col calcio del fucile, lo gettò brutalmente a terra: cadde il ferito, s’udì un rantolo, forse l’ultimo, quello che gli perdonava tanto soffrire.
E a parecchi strazianti e disumani avvenimenti, ad altre scene di dolore e di sgomento fui ancora testimone e solo verso mezzogiorno uscii dal ciclopico flagello.
Andrea Rosa