IL CUORE STRAZIATO
Se a Valloncello dell’Albero Isolato (per dire un nome di località piuttosto che uno dei tanti altri) delle case non è che qualche brandello logorato ad essere superstite della brutalità bellica, della vita non resta nulla. Rimane un paesaggio freddo, tetro, una natura sfregiata e privata della propria pura, incontaminata, bellezza. Tutt’attorno, uomini accasciati sul terreno ormai sterile, che spirano mentre hanno ancora il fucile imbracciato e, nelle orecchie, il sordo boato di bombe che piovono da ogni direzione. È in questo macabro scenario che Giuseppe Ungaretti si trova a scrivere, a imprimere con l’inchiostro sulla carta ciò che vede, ciò che sente, ciò che prova. Ungaretti è un uomo di poche parole, appassionato di poesia (in particolare di quella francese) e che nel 1914, allo scoppio del I conflitto mondiale, partecipa attivamente alla campagna interventista, arruolandosi successivamente il 24 maggio 1915, data dell’entrata in guerra da parte dell’Italia. Ha con sé un taccuino, che riempie di parole, di poesie. Ecco, la poesia: l’arte di comporre opere in versi. L’arte tramutata in antidoto al veleno, al trauma della guerra e che, molto probabilmente, ha permesso ad Ungaretti di resistere, nonostante fosse stato catapultato in una realtà ben oltre la distopia di quella guerra che, mesi prima, aveva tanto sperato di combattere. Al fronte, entra dunque a contatto con la pura e violenta disillusione, quasi tangibile nelle sue opere. Le prime righe di questo stesso testo fanno riferimento proprio ad una sua lirica: “San Martino del Carso”, che riporto di seguito:
“Di queste case
non è rimasto
che qualche brandello di muro
Di tanti che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
ma nel cuore
nessuna croce manca
È il mio cuore
il paese più straziato”
Il cuore è il paese pieno di presenze. Nel cuore, la memoria dei tanti fratelli con cui egli ha instaurato un legame di contatti, permane indelebile; nessuna croce manca. Nessun compagno è assente. Ungaretti si rispecchia in loro, nel loro ricordo vede anche se stesso, la sua (s)fortuna nell’essere sopravvissuto alla barbarie bellica, pur costretto a fare i conti con un simile fardello per il resto dei suoi giorni (è lui stesso a scrivere che “la morte si sconta vivendo”). Si rende dunque il custode della memoria di quelle vite che hanno lasciato il posto ad assenze e che, nella loro fragilità, si fanno vivide nel suo cuore; avverte in sé la presenza di chi ora non c’è più e che, tuttavia, gli appartiene. E quei suoni duri, secchi, nella pronuncia di queste parole si rendono portavoce del dolore profondamente rancoroso appostato scrupolosamente nell’anima, sempre attento a non alleggerirsi, a non alleviare il dolore di quelle ferite con cui ognuno deve indubitabilmente fare i conti.
Le ferite del passato, nella migliore delle ipotesi, si fanno cicatrici. Altre volte, sono impossibili da rimarginare. Penso sempre alla frase “pronunciata” da Hans Schwarz, protagonista de “L’amico ritrovato” di Fred Uhlman, che dice: “Le mie ferite non sono guarite e ogni volta che vi ripenso -alla Germania- è come se venissero sfregate con del sale.” Entrambi sono superstiti. Entrambi si ritrovano ad essere i diretti testimoni di quanto la Storia ha impresso nelle loro menti, volenti o nolenti che fossero. È possibile vivere dunque una vita soddisfacente, pur convivendo con un’eterna rimuginazione legata a ricordi vividi del passato?
E poi, la seconda lirica: “Veglia”, scritta il 23 dicembre 1915, che recita:
“Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita”
Quella appena trascritta è una poesia composta da Ungaretti in un giorno che precede una data significativa per la religione cristiana: la lirica è infatti datata 23 dicembre 1915, giorno precedente alla Vigilia di Natale. Vigilia; Vigilare; Vegliare; “Veglia”. La veglia non è altro che un’attesa vigile nei riguardi di qualcuno in una situazione di svantaggio. In questo caso, Ungaretti si trova “buttato” vicino ad un “compagno”. Non lo definisce semplicemente un soldato, ma un compagno. Una persona con cui percorre la medesima strada, nelle medesime condizioni di vita. Un compagno massacrato. Ungaretti è direttamente testimone della lacerazione più violenta della vita, nel tempo infinito che scandisce il silenzio della notte. Come se quelle lacerazioni così violente avessero oltraggiato la sacralità della vita. E Ungaretti scruta, osserva, contempla; descrive le mani di quest’uomo penetrate da una congestione fredda, tesa, rigida in questo silenzio tanto tranquillo quanto opprimente. Ungaretti si trova a stretto contatto con le dirette conseguenze della guerra che comprendono, anche e soprattutto, una morte “banale”, priva di dignità, in un dolore lancinante che appare cristallizzato dal freddo e dall’attesa logorante di attimi eterni. A contatto con la morte di un altro compagno. Di un altro camarade, come il protagonista de “Niente di nuovo sul fronte Occidentale” di E.M. Remarque definisce l’avversario francese da lui pugnalato isintivamente durante un attacco. Paul, il protagonista, si ritrova a fare i conti con le dirette conseguenze delle sue azioni, prova inconfutabile il corpo dell’uomo che ormai ha spirato. Paul capisce che “prima per me eri (si rivolge al soldato francese) solo un’idea, una formula di concetti nel mio cervello che ha determinato quella risoluzione. Io ho pugnalato quella formula. Soltanto ora vedo che sei un uomo come me.” Niente come vegliare sulla morte fa amare la preziosità e la fragilità della vita. E lui (Ungaretti) scrive lettere piene d’amore. E la bocca digrignata di quest’uomo ormai cadavere è rivolta al bagliore della luna piena, costringendolo ad osservarlo; ad osservare la brevità della vita. Costringe a chiedersi quale sia il vero senso di questa guerra. Se ne sia valsa veramente la pena. Probabilmente Ungaretti capisce in questo momento quanto la scrittura sia importante, addirittura vitale, per l’uomo. Ed è qui, tra il rumore degli spari, presente anche nelle sue parole, con la pronuncia sorda di alcune consonanti che continuano a ripetersi nel corso dell’opera, che dice di non essere “mai stato tanto attaccato alla vita”, utilizzando un’espressione banale, dettata dall’istinto. E conclude di nuovo con quel suono sordo. Di nuovo con quegli spari. Ancora la stessa, fragile, preziosa vita.
Caterina Canevari